Mysterium

Un racconto in quattro parti scritto nel 2019 e pubblicato nel 2020 all'interno della rubrica 'Feuilleton' della rivista Film TV. Editing a cura di Carolina Crespi.


Download PDF

1.

Avevo dato disposizioni precise. Le avevo impartite, le avevo ripetute, ma forse la volontà individuale non conta nulla e dietro la mia vita c’è uno spartito segreto che posso soltanto eseguire con maggiore o minore perizia, senza poter orientare le scelte di un arbitrio superiore. L’esistenza ridotta a esercizio di interpretazione di un destino.

Ricordo ancora il volto mortificato del sovrintendente che per tutto il pomeriggio mi ha inseguito lungo i corridoi, pronto ad assecondare qualunque mia richiesta. Tutte tranne l’unica che io abbia davvero formulato.

«Maestro…», mi ha risposto. «Non serve che lo dica!»

Avrebbe voluto mostrarsi offeso ma gliene mancava il coraggio. Aveva scelto allora di esibire una profonda ferita interiore. Guardava il pavimento, incapace di sollevare lo sguardo oltre le punte delle mie scarpe. Me lo ricordo bene il lamento della sua dignità straziata: è rimasto immobile senza dire più nulla, sperando forse che mi pentissi di quell’attentato alla sua professionalità.

«Non faccia. Entrare. Nessuno.»

L’ho ripetuto scandendo le parole in tempo di valzer.

Aveva ragione, non c’era bisogno di precisarlo. Tutti sanno quanto io detesti essere avvicinato. Mi riferiscono che D’Hermanville, pensando di strappare una risata alla mie spalle, avrebbe pronunciato la seguente frase, in presenza di un assembramento di orchestrali: «Mi ricorda Benedetti Michelangeli, ma solo per il carattere.»

Ci sono migliaia di pianisti più cordiali di me. Sono quasi tutti dattilografi del pentagramma il cui mestiere consiste unicamente nel leggere un segno sulla carta e schiacciare il tasto corrispondente sul pianoforte, ma questo è il prezzo che si paga quando si trascura il talento in favore del carattere.

L’ironia, la tragedia, consistono nel fatto che gli aneddoti sulla mia presunta misantropia non fanno altro che attrarre nuovi scocciatori. Potrei accettare queste crudeltà sussurrate alle mie spalle se almeno servissero a tenermeli lontani, a rompere l’assedio delle loro attenzioni, ad annientare il rumore delle loro voci e dei loro strumenti maltrattati a pochi centimetri dalle mie orecchie. Non è così, purtroppo. Non è stato così quella sera.

La consuetudine mi obbligava a concedere almeno un encore. Avevo eseguito la bagatella più corta e insignificante che riuscissi a ricordarmi. Sono rientrato in camerino molto tempo prima che finissero di scrosciare gli applausi. Lungo il corridoio ho incrociato Zimmerman. Ha finto di unirsi al tributo avvicinando platealmente le mani ma per comprendere il suo reale stato d’animo bisognava osservargli la mandibola irrigidita dal rancore. La mia bagatella aveva superato il suo Mozart. L’ho visto succedere a direttori molto più capaci di lui: non sopportano che l’encore venga acclamato più del concerto. La gente paga per il programma ma il giorno dopo parla soltanto di me, di quei pochi minuti di libertà che mi è concesso trascorrere davanti all’orchestra ammutolita. Chiedete a Karajan, Jochum, Harnoncourt, ma chiedete anche a D’Hermanville se volete togliergli la voglia di scherzare. Budapest, febbraio 1987: mi è bastato un minuto e mezzo di Scarlatti per oscurare il primo concerto di Brahms.

Nessuno pensi tuttavia che io abbia mai ricavato una qualche soddisfazione da questi trionfi. Quando mi alzo dallo sgabello non mi importa di nulla, vorrei soltanto poter ritardare all’infinito il momento del mio ritorno al mondo. Chiedo solo qualche misura di silenzio dopo aver sopportato per un’ora il rumore di un’orchestra di sessanta elementi che sfoga gli strumenti contro al mio orecchio sinistro, mentre io cerco di eseguire dignitosamente la parte rilevante di un concerto per pianoforte.

Un giorno Todorov, stizzito per la mia richiesta di abbassare i toni di un fortissimo, mi ha cacciato dal palco lanciandomi l’insulto più prezioso che abbia mai ricevuto.
«Sonoclasta!», mi ha urlato.

Aveva ragione, in qualche modo. Non posso dire di detestare la musica ma sono una specie di adoratore pagano del silenzio. Per questo prima e dopo un’esibizione esigo di rimanere solo dietro a una porta chiusa: per allontanarmi dalla musica, per avvolgere nel silenzio le mie interpretazioni. Dopo Mozart, dopo Beethoven, dopo Schumann non posso tornare al brusio, alla chiacchiera, ai tacchi delle scarpe contro i pavimenti, al cigolare dei cardini, alle esplosioni che alimentano i motori delle auto. La musica ha bisogno di svettare sul repertorio infinito di tutti gli altri rumori del mondo; è terribile a dirsi dopo quello che mi è successo, ma questo guscio di silenzio è come il vuoto che circonda una montagna. Non esiste altitudine senza isolamento.

Il silenzio mi è sacro, eppure quella sera il mio breve rito è stato vergognosamente profanato. Nonostante le raccomandazioni, le suppliche, le minacce, ho sentito bussare per tre volte alla mia porta.

2.

Il sovrintendente. Proprio lui che aveva giurato di aver compreso le mie parole, lui che era quasi svenuto per avermi sentito formulare una richiesta tanto ovvia da minare le fondamenta della sua professionalità, ora spalancava la porta del mio camerino senza aver ricevuto da me un cenno o una parola che potessero essere scambiati per un invito.

«Maestro mi dispiace. Non posso evitare di disturbarla.»

Ora mi guardava negli occhi. Non aveva più paura. Non di me, almeno.Aveva scoperto qualcosa o qualcuno in grado di terrorizzarlo più diquanto non avessi saputo fare io.

«Perderà il lavoro per questo. Tutto quello che ha sentito dire sul mio carattere viene spesso confermato dal mio comportamento. Posso fare accadere cose molto spiacevoli senza provare alcun rimorso.»

«Ne sono consapevole, ma si tratta di una persona che non ho il potere di respingere.» Non è stata una semplice affermazione, piuttosto un’ammissione di colpa. Era pronto a salire al patibolo.

«Lei forse no ma io ho respinto ministri, generali, compositori, massoni. Ogni volta la mia carriera ha rischiato di andare in frantumi, eppure mi è bastato premere un solo tasto e tutti sono tornati ai miei piedi. Tutti fuori dalla mia porta, i re e i pezzenti.»

«Maestro, lei non capisce. Ci sono poteri ai quali non serve ribellarsi. Non posso…»

Non terminò la frase. Sembrava quasi che la negazione del verbo potere non fosse in grado di esprimere la particolare natura di quell’impotenza, che nasceva da una sottomissione troppo grande per essere smentita. Aveva ragione: non capivo, non ancora, e le sue parole ottenevano il solo scopo di fomentare la mia rabbia.

Il sovrintendente è fuggito lasciando aperta la porta. Al suo posto è comparsa una figura di donna. Era piccola da fare spavento, un’anziana rinchiusa in un corpo di bambina. Stretta dentro a un abito antico, ottocentesco, sembrava indossare un costume di scena nella vita reale. Mi ha contagiato con l’inappropriatezza del suo aspetto, come se fossi io a essere troppo grande e troppo contemporaneo.

«Grazie per avermi accolta. Sono anch’io, come lei, un’amante della solitudine. So quanto sia difficile rinunciarvi.»

«No. Sono io a essere onorato di riceverla.»

In altre circostanze non avrei mai ammesso di averla riconosciuta, per non tradire una qualche familiarità con le cronache mondane che con grande circospezione si erano occupate di lei. La donna in piedi davanti a me rispondeva al nome di Ecaterina Glazkhova. Era stata un’attrice riverita, addirittura venerata dai pochi che avevano avuto la fortuna di vederla recitare.‌ Pare fosse arrivata in Italia da bambina, al seguito della compagnia teatrale del padre, attore mediocre e genitore anche peggiore, il quale accettò di cederla a un impresario che intendeva fare di lei la prossima Eleonara Duse. E ci era quasi riuscito se non fosse accaduto che una delusione cocente, professionale o amorosa, la spinse a ritirarsi dalle scene in giovane età. Dopo anni di silenzio è riapparsa trasformata in un’ingannatrice di ingenui facoltosi. Calamitava le attenzioni di sedicenti artisti, politici, imprenditori e li intratteneva nel salotto del suo appartamento con giochi di prestigio, letture di tarocchi, presunte precognizioni e altre sciocchezze. Una maga d’alto bordo, la cui fama si alimentava grazie alla celebrità dei suoi clienti. Forse sperava di ingaggiare anche a me tra le fila dei suoi frequentatori.

«Le è piaciuto, il concerto?»

Non che mi interessasse la sua opinione, ma ero certo che avrei ricevuto i complimenti di rito e preferivo sbrigare in fretta la pratica.

Non rispondeva, allora ho commesso l’errore di cercare il suo sguardo, trovando nei suoi occhi due pupille nere, profonde, così grandi e affamate di luce da arrivare a eclissare l’iride.

«Non sono riuscita ad ascoltarlo. Ero seduta in prima fila, proprio sotto di lei, ma venivo continuamente distratta dalla pesantezza del suo respiro. Mi perdoni, maestro, ma il suo naso emette un suono più forte del suo piano.»

Mi offendo facilmente, eppure non ho potuto che ridere di quell’insulto troppo assurdo per essere preso seriamente.

«Per questo si è introdotta nel mio camerino? Per criticarmi?»

«Chiuda la bocca», mi ha ordinato.

Stranamente non ho pensato nemmeno per un attimo di sottrarmi a quel comando. Ho serrato le labbra e non ci è voluto molto prima che mi sentissi soffocare. Annaspavo, l’aria mi si incastrava dentro alle narici, espiravo emanando un fischio lugubre. Era un fastidio che mi portavo dietro da anni, una sorta di raffreddore perenne che nemmeno i più grandi luminari avevano saputo curare. Può darsi che nella concitazione di alcuni passaggi del concerto avessi involontariamente stretto i denti e cercato di respirare attraverso il naso.

«Permette?»

Nel porre la domanda ha allungato un braccio verso di me. Le dita scheletriche della sua mano destra sono arrivate a lambirmi la faccia. Ho cercato di ritrarmi ma non ero più padrone dei miei movimenti. Mi ha posato l’indice tra gli occhi e con la punta del dito ha percorso tutto il setto nasale fino all’apertura delle narici. Non potrò mai dimenticare la temperatura di quel tocco, il gelo che mi ha trasmesso. Quando ha ritratto la mano mi è sembrato di rinascere, di sfuggire a un tentativo di soffocamento che durava da tutta la vita.

«Ecco. Questo è un respiro degno del più grande pianista vivente. Calmo e silenzioso», mi ha detto.

Cercai di convincermi di essere vittima di un’illusione, di un potere di suggestione che avrei infranto facilmente. Ho capito che quella donna stava cercando di farmi contrarre un debito nei suoi confronti. Ho capito che voleva qualcosa da me ed era qualcosa di infinitamente prezioso. Ho capito tutto fin da subito eppure capire non mi è servito a nulla.

3

Torno spesso a setacciare ogni parola di quel breve dialogo chiedendomi dove e quando avrei potuto oppormi, protestare, interferire col destino. Ci penso così intensamente da illudermi di poter raggiungere il passato. La realtà svanisce e al suo posto i miei occhi inquadrano il ricordo, denso come un oggetto. Mi sorprendo a pronunciare intere frasi come se fossi ancora lì, dentro a quella stanza, davanti a lei.

«Per questo ha chiesto di vedermi? Per guarirmi il raffreddore?», le ho domandato.

«No. Sono qui per porle una domanda.»

«La ascolto.»

«Le piace il cinema, maestro?»

«Lo detesto», ho risposto. «Amo il buio e il silenzio. Il cinema è fatto di abbagli e rumori.»

«Detesta anche le persone, se non sbaglio», ha ribattutto lei.

«Quasi tutte.»

«Eppure ogni volta che lei si esibisce suona per delle persone.»

«Alla musica servono orecchie e le orecchie purtroppo sono incollate alle persone.»

Si è presa un momento di silenzio prima di rivelare finalmente il motivo della sua visita.

«Ho accettato di girare un film. In gioventù me lo avevano chiesto in molti ma non ho mai voluto tradire il palcoscenico. Alla fine l’ho tradito comunque e per quarant’anni sono rimasta lontana dalle scene. L’anno scorso Antonio Sarpi, regista sopraffino e mio carissimo amico, mi ha offerto una parte piccola ma estramamente significativa. Ho accettato, forse perché voglio recitare un’ultima volta prima di congedarmi dal mondo. Sarà il mio primo e ultimo film e voglio che sia indimenticabile. Conosce Sarpi, sa con quanta passione e dedizione lavori. Ha sempre voluto e ottenuto i migliori attori, le migliori maestranze e per questo progetto esige anche delle musiche inarrivabili. Per questo sono qui a supplicarla.»

«Perché Sarpi non è venuto a chiedermelo di persona?»

«Oh, ci ha provato molte volte e molte volte è stato respinto. Non è semplice aprire la sua porta, maestro. Antonio avrebbe voluto essere qui con me, oggi, ma le riprese sono già iniziate e al momento si trova sul versante indiano dell’Himalaya. Non le piacerebbe suonare davanti alle montagne più alte del mondo?»

«Per incidere una colonna sonora? Non è la prima volta che ricevo una proposta del genere. Ho sempre rifiutato. Le chiamano musiche da accompagnamento perché sono l’equivalente musicale della prostituzione. Mi disgusta l’idea di eseguire una sonata di Rachmaninoff per sottolineare una scena d’amore o per istigare qualche lacrima durante l’agonia di un personaggio minore. Sarebbe svilente. Non per me ma per la musica.»

Ha taciuto per qualche secondo lasciando che il silenzio aggredisse il mio ragionamento, fino a quando le parole si sono disperse nella stanza e hanno smesso di significare.

«Non ci serve Rachmaninoff. Vogliamo un brano composto da lei.»

Come sospettavo stava cercando di arruolarmi nella schiera di sprovveduti che affollavano il suo salotto.

«Se intende vendermi i suoi servizi devo fermarla. Io non compongo e non sono in cerca di ispirazione. Sono un interprete, non un creatore.»

«Potrei smentirla.»

Avrei dovuto rispondere subito. Protestare vivacemente. Cacciarla dalla stanza. Avrei dovuto mentire pur di non manifestare davanti a lei la mia debolezza più grande, la maledizione che mi avrebbe trascinato alla rovina.

«Può smentire un’affermazione, non la natura stessa di un uomo», ho risposto.

«L’encore di Dresda, l’anno scorso», ha ribattuto lei.

«Un preludio di Scriabin, se non ricordo male.»

Ha sorriso alle mie proteste. Ho anzi l’impressione che non avesse mai smesso di sorridere per tutta la durata del nostro incontro.

«Dopo Scriabin, mentre il pubblico applaudiva, lei ha accennato un brano. Un brano che nessuno è riuscito a riconoscere.»

Mi sono maledetto per avere ceduto alla vanità in quell’unica occasione: avrei dovuto alzarmi, accogliere gli applausi, inchinarmi e andarmene. Invece ho tradito me stesso rivelando velleità dilettantesche. Sono bastate poche note per macchiare una carriera impeccabile.

«Dev’essersi trattato di un’allucinazione sonora.»

«Può darsi, ma è un’allucinazione che Antonio non riesce a dimenticare. Si è convinto che in quella manciata di note si nascondesse il suo tentativo di completare il Mysterium, la grande opera incompiuta di Scriabin.»

L’espressione di sorpresa e terrore che è scesa sul mio volto mi ha impedito di continuare a negare. Pensavo fosse il segreto meglio custodito della mia vita e invece si sarebbe presto trasformato in un pettegolezzo umiliante.

«Da anni Sarpi era in cerca di un’idea per il suo nuovo film e a Dresda ha finalmente ricevuto la folgorazione che aspettava: mettere in scena il Mysterium, l’opera totale, la rappresentazione del mistero ultimo che Scriabin avrebbe voluto eseguire sull’Himalaya. Uno spettacolo fatto di musica, canto, teatro, luci, profumi. Un inno ai cinque sensi e alla coscienza umana.»

«Gli faccia i miei migliori auguri.»

«Per riuscire a finire il film ha bisogno di lei. Della sua musica.»

Ha spostato lo sguardo verso un vecchio pianoforte verticale appoggiato contro la parete più buia della stanza.

«Anche se non è uno strumento degno della sua reputazione, posso chiederle di farmi riascoltare le note di Dresda?»

«Non esiste nessuna…»

Inutile. Quella donna sapeva donarmi e togliermi l’aria dalle vie respiratorie. Ha preso le mie mani tra le sue. Ho sentito un flusso di calore diffondersi tra le dita. Dopo qualche secondo stavo accennando le note del mio studio per pianoforte, che allora non era altro che uno scarabocchio incompiuto. Ho suonato per quasi un minuto. Non ero mai arrivato a spingermi così avanti.

«Da quanto tempo ci sta lavorando?», mi ha domandato.

«Quindici anni», ho ammesso.

«Ed è soddisfatto del suo lavoro?»

«Per niente. È un groviglio inestricabile di trame senza una struttura, senza un motivo…»

«Troppe note tutte insieme», ha detto lei.

Un tempo avrei accolto le sue parole come un’onta mortale, ma in quel momento ero così prostrato da credere di meritare infinite umiliazioni.

«Posso aiutarla», ha aggiunto. «Raggiunga Sarpi e insieme completerete il Mysterium.»

4

Io, che ho annullato intere tournée e rifiutato milioni solo per non dovermi sobbarcare viaggi ben più brevi, sono salito su tre diversi aerei, ognuno più piccolo e malfermo del precedente, per farmi condurre in un punto sperduto dell’India settentrionale dove Sarpi mi attendeva con la sua troupe.

L’atmosfera era tesa. Le riprese procedevano a rilento a causa degli ostacoli opposti dall’incombere dell’inverno. Le maestranze e gli attori erano sfiancati da settimane di riprese ad alta quota e forse per questo sono stato accolto da loro come un eroe, nella speranza che il mio contributo musicale potesse diradare l’incertezza che spingeva Sarpi a ripetere sempre le stesse scene senza mai trovare soddisfazione. C’erano stati piccoli incidenti provocati dalla sfortuna o dall’impreparazione della troupe ad affrontare la montagna. I ritardi si accumulavano, intere scene venivano cancellate, riscritte o improvvisate senza una logica apparente. Sarpi era l’unico ad avere piena coscienza di quel caos.

Il film raccontava la storia di una gigantesca compagnia di attori e orchestrali che risaliva una montagna sacra per mettere in scena il Mysterium di Scriabin, una delle grandi utopie artistiche irrealizzate del ‘900. Era facile intuire come Sarpi alimentasse la frustrazione di attori e musicisti per trasferire alla finzione il dolore, la fatica, l’isteria da loro accumulati nella realtà. Manipolava materiali altamente infiammabili con l’intento di provocare un’esplosione controllata.

Io mi sentivo esonerato da tutte quelle difficoltà. Non potevo lamentarmi di nulla, nemmeno del freddo. Alloggiavo a 2000 metri di altitudine in un lussuoso resort per ricchi turisti in cerca di una confortevole avventura himalayana. I locali erano stati interamente affittati dalla produzione e mi era stata destinata la suite più grande. Al centro del salotto era posato un magnifico Steinway degli anni ‘20 perfettamente restaurato. Ogni sera Sarpi mi portava i giornalieri da visionare. Li proiettava contro l’unica parete spoglia della stanza. Osservavo in silenzio, lasciavo che le immagini guidassero le dita, accennavo motivi sempre più lunghi, sempre più complessi.

Sarpi non commentava mai eppure percepivo la sua soddisfazione. Eravamo contaminati da un’ispirazione reciproca, i nostri lavori si rincorrevano l’un l’altro intrecciandosi come fili di seta che avrebbero condotto lo spettatore alla sontuosa scena finale, quella che avrebbe avuto per protagonista Ecaterina Glazkhova.

«Quando arriverà madame Glazkhova?»

«Presto», mi ha risposto laconicamente Sarpi.

«In cosa consiste la sua parte?»

«Lo scopo del Mysterium è la ricerca del mistero ultimo e madame Glazkhova è la protagonista del film. Ecco qual è la sua parte: il grande mistero. Dio, o la morte, non ho mai capito la differenza.»

Una mattina Sarpi ha bussato alla mia porta. Ero sorpreso di vederlo a quell’ora.

«Maestro, mi servono le sue mani.»

«Le mie mani sono al suo servizio», ho risposto indicando il pianoforte alle mie spalle.

«Ho bisogno di riprenderle. Oggi giriamo la scena finale e voglio inquadrarle le mani mentre esegue l’etude al centro del ghiacciaio. Non ci vorrà molto.»

«Ma lo studio non è ancora completo!»

«Non lo sarà mai se non smetterà di comporlo. La costumista sarà qui tra poco. La aspetto di sotto.»

Avrei voluto chiedere di nuovo notizie di Ecaterina Glazkhova ma non è servito. Percepivo la sua presenza intorno a me, mi sentivo nuovamente pervaso da quell’incapacità di agire secondo la mia volontà. Non ho potuto che assecondare la richiesta di Sarpi.

Un pianoforte a coda era posato al centro di una distesa di ghiaccio. Affiorava dal sottile strato di neve fresca caduto la notte precedente. Ai lati del pianoforte era stati collocati una macchina da presa puntata sulla tastiera e un microfono direzionato verso la cassa armonica. Quando ho raggiunto il pianoforte, accompagnato da un’assistente di produzione, ero spossato dal viaggio in elicottero e dalla lunga camminata su un terreno insidioso, eppure mi sono seduto, ho atteso il segnale di Sarpi e ho iniziato a suonare la mia personale ricostruzione del finale del Mysterium.

La tempesta è arrivata all’improvviso. Il livello di concentrazione che avevo raggiunto mi ha impedito di veder sparire l’orizzonte. L’aria si è oscurata, la neve ha iniziato a cadere con violenza in ogni direzione togliendomi vista e respiro. Ho commesso l’errore di alzarmi dallo sgabello, di iniziare a camminare senza una meta, senza rendermi conto che in questo modo avrei depistato i soccorsi. Procedevo camminando attraverso il muro di neve quando un bagliore ha rischiarato per un momento la cima della montagna sopra di me. Come in un incubo potevo attraversare grandi distanze con lo sguardo. Ho visto Ecaterina Glazkhova incastonata sulla cima della montagna, una mostruosa sirena dal busto di donna, la cui parte inferiore del corpo era costituita da una sterminata distesa di roccia e ghiaccio. Ho sentito il suo sguardo posarsi su di me, l’ho vista scomparire inghiottita dalla tempesta. Stremato dal gelo, ho vagato per ore attraverso un deserto di ghiaccio prima di perdere conoscenza. Mi sono risvegliato in un letto d’ospedale. Non ricordavo nulla. Volti sconosciuti mi interrogavano senza ricevere risposta. Ho sollevato le mani. Le ho subito riabbassate nella speranza di cancellare l’orrore ma oggi so che quello sguardo durerà per tutta la vita. Non è servito chiudere gli occhi per smettere di vedere le due falangi amputate per l’ipotermia. Ecco come ho potuto smettere di essere il più grande pianista vivente per diventare un compositore mediocre. Forse un giorno il mio Studio per pianoforte e note fantasma verrà annoverato, al fianco dei concerti per mano sinistra di Hindemith e Ravel, come un caposaldo della letteratura pianistica per mutilati.