La piccola faccia

Questo racconto era stato originariamente scritto nel 2021 per il concorso letterario “Inedito - Colline di Torino”.


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Ormai guardo solo più documentari. I film li ho già visti tutti cento volte e il resto dei canali trasmettono solo cretinate. Quando è suonato il citofono c’erano gli orsi della Transilvania, che tra l’altro l’avevo anche già visto però mi è salita lo stesso una rabbia come se mi avessero interrotto mentre stavo facendo qualcosa. Ho persino spento la televisione anche se non c’era bisogno, ma era per dire che mi avevano dato proprio fastidio con quella citofonata in mezzo al pomeriggio.

Non ho chiesto “chi è”, “cosa volete”, niente. Ho solo aperto il portoncino, tanto non cambia se chiedi o no e tanto lo so già che sono quei rompicoglioni della pubblicità. Si inventano qualunque porcata per entrare. Fanno finta di essere il postino invece sono degli scappati di casa con un carrello pieno di volantini. Io li butto via senza leggerli i loro volantini di merda. Ho anche provato a non aprire ma tanto a cosa serve, loro schiacciano venti pulsanti in un colpo solo e qualche scemo che li apre lo trovano sempre. Quelli più navigati suonano direttamente alla signora Marmora, del terzo piano, che tanto è sorda come una campana e tutte le volte chiede “Chi è?”, ma poi tanto non capisce la risposta e apre sempre a tutti. Quasi la invidio, alla fine. Io pagherei per non sentire più niente. Tutto il peggio che mi è arrivato dalla vita è sempre passato attraverso le orecchie.

Così un’idea s’è attaccata a un’altra e mi è venuto da pensare a quella vecchia canzone milanese, come si chiamava? “I tromboni della pubblicità” o una roba del genere. Che ridere. Ho provato a ricantarmela in testa anche se non mi ricordavo le parole. L’ho anche registrata dal vivo una volta, nel Settanta e qualcosa, dentro un teatro che sembrava un’osteria. Ci hanno poi fatto un disco con la mia registrazione e si sentiva una meraviglia anche se dentro quella cantina il suono bisognava rincorrerlo. Rimbombava da tutte le parti e la gente tossiva, rideva, parlava più forte del cantante, eppure, anche quella volta sono riuscito a prenderli e metterli in tasca, sia la chitarra che la voce, e si capiva tutto, anche il dialetto, anche le barzellette che raccontava tra una canzone e l’altra ma soprattutto si sentiva l’atmosfera. Il vino, le sigarette, la notte. Come dire, il posto e il momento. Io non ho mai avuto bisogno di usare tanti riverberi o di riempire il segnale di effetti perché ero capace a piazzare i microfoni. Quando sei capace a mettere un microfono non c’è bisogno di tanti marchingegni. È già tutto lì, dentro al segnale, bisogna solo saperlo acchiappare, e soprattutto non avere fretta. L’aria, per il suono, è come l’acqua per un pesce, infatti quando vai a comprare un pesciolino te lo danno dentro a un sacchetto pieno d’acqua. Qui è lo stesso: dentro il microfono devi fare entrare il suono con la sua bolla d’aria intorno, altrimenti ti soffoca nelle orecchie. Dicevo sempre, quando ancora qualcuno mi ascoltava: il segnale è fatto al cinquanta percento di suono e al cinquanta di aria. Se prendi solo il suono lo ammazzi, il segnale, e allora non sei più un fonico, sei un becchino.

Mi è venuta voglia di risentire il disco milanese ma non lo trovo. L’ho cercato sotto la esse e anche sotto la enne. La verità è che in questi scaffali non ci sono più lettere e non c’è più nessun ordine. Tutto mischiato. È un periodo che prendo i dischi, li metto sul piatto e poi mi stufo dopo due minuti. Mi disgustano tutte le musiche e mi passa la voglia di rimetterli al loro posto. Così li lascio lì, sul giradischi spento, fino a quando non ne scelgo un altro e quello vecchio lo ripongo dove capita. Forse è un modo per perderli. Non ho il coraggio di buttarli via, allora li spingo in un posto a caso, basta che ci sia un millimetro di spazio vuoto. Per cercarli bisognerebbe mettersi a leggere le scritte ma sono troppo piccole e girate al contrario, dovrei strizzare gli occhi e torcere il collo in una maniera che poi rischio di rimanere bloccato con l’orecchio attaccato alla spalla. Allora la maggior parte delle volte lascio perdere e torno a guardare i documentari.

Però stavolta è successa una cosa che non mi aspettavo. Hanno suonato al campanello di casa, proprio quello della porta di ingresso. Non so da quanto tempo non succedeva.

All’inizio sono rimasto fermo e zitto. La televisione era spenta quindi potevo fare finta di non esserci. Poi la curiosità mi ha fregato. Ho chiesto Chi è e mi ha risposto una vocina di donna timida. Ha detto un nome, Anna, ma l’ha detto come se non fosse sicura.

Anna. Subito non ho capito.

«Che Anna?», mi veniva da chiedere.

Ma era inutile stare lì a discutere con un pezzo di legno in mezzo, come se fossimo dentro a un confessionale, allora ho fatto che aprire.

Teneva un bambino per mano ma io il bambino non l’ho neanche guardato. Ho guardato lei e ci ho messo un attimo a riconoscerla, anche perché saranno passati almeno vent’anni, o comunque così tanti anni che non pensavo di rivederla ancora. D’altronde tutte le persone che conoscevo sono morte oppure perse in giro per il mondo, come i miei dischi, che di sicuro sono da qualche parte ma non so come fare a trovarli.

«Volevo telefonare prima di venire ma il numero che avevo…»

«Che numero avevi?», ho chiesto io, come se importasse.

«011…»

Non l’ho neanche lasciata finire.

«Ah, no, il fisso non c’è l’ho più. Troppe spese e poi telefonavano solo venditori e rompi…»

Mi sono ricordato del bambino, allora ho cambiato la parola in corsa.

«Rompiscatole.»

«Qualche rompiscatole è riuscito a trovarti lo stesso», mi ha detto.

Ha anche sorriso. È strano perché da bambina non me la ricordo sorridere tanto. Era sempre triste, pensierosa, e io non capivo come faceva una bambina ad avere già la malinconia se non aveva ancora visto niente.

«Ma và…», ho detto io.

«Non volevamo disturbarti. Era solo per farti un saluto.»

«Hai fatto bene.»

«Allora ciao. Magari passiamo poi un’altra volta», ha detto, e ha cominciato a tirare il bambino per la mano.

Non sapevo come continuare. Volevo quasi dire che mi faceva piacere vederla ma era meglio se pensava di avere disturbato almeno un po’.

Le ultime volte che ci siamo visti abbiamo detto delle cose brutte. Quasi tutte le ho dette io, anche perché lei non aveva neanche vent’anni, cosa ne sapeva di come si offende seriamente, di come si fa a dire quelle parole che ti tengono sveglio la notte. Non è difficile, si impara in fretta: prendi il difetto più grande della persona che hai davanti e lo trasformi in una colpa. Il suo difetto era quello di essere nata dalle persone sbagliate. Cercava solo di liberarsi da certi fardelli che l’avrebbero ammazzata se non segava le catene ma io le dicevo che era un’egoista, che pensava solo per sé stessa, che aveva abbandonato la famiglia e poi veniva a reclamare l’eredità. Per cosa poi? Capisco quelli che si accoltellano per i miliardi, ma noi, che ci spartivamo qualche cianfrusaglia buona soltanto per accendere la nostalgia e risvegliare qualche brutto ricordo… Eppure, in quei giorni lì, sarà stato il dispiacere che non mi faceva capire più niente, sarà stata la rabbia di non essere riuscito a salvare mio fratello, non so, cercavo qualcuno a cui dare la colpa e in giro c’era solo lei e allora mi sono messo a urlare addosso a una ragazzina.

«Ma no, dai, entra, ormai sei venuta fin qua…»

Alla fine è entrata ma non voleva sedersi e allora è ricominciata tutta la tiritera di lei che non voleva disturbare, io che insistevo ma non troppo convinto, finché sono riuscito a farli mettere sul divano. Ho tirato via una sedia da sotto il tavolo e mi sono seduto lì.

«Stiamo solo due minuti», ha detto.

«Perché solo due minuti?», ha chiesto il bambino.

Lei non gli ha neanche risposto. Non so niente di bambini ma secondo me ha fatto bene: bisogna lasciarli parlare, così capiscono da soli.

«Fatti fare almeno un caffè. Lo vuoi anche tu un caffè?», ho chiesto al bambino.

Si è messo a ridere.

«A me non mi piace il caffè.»

«Cosa gli piace, il succo di frutta?», ho chiesto.

«Un bicchiere d’acqua va benissimo».

«Ma che bicchiere d’acqua. Non è mica una pianta, che bisogna innaffiarlo. Di succo di frutta non ne ho, però se io spremo un’arancia e gli metto dentro un cucchiaino di zucchero diventa un succo di frutta, no? Non è così che li fanno, al supermercato? Te li fanno strapagare ma alla fine è solo acqua, frutta e zucchero.»

Non so perché me la sono presa con i succhi di frutta, sarà stato l’imbarazzo di dover dire qualcosa per forza o magari veramente ho bisogno di avere sempre qualcuno con cui litigare, come mi ha detto una volta quella faccia di merda del mio capo. «Forse mi è rimasto un cioccolatino da qualche parte.»

Sono andato a recuperare un cioccolatino che sarà stato vecchio di due anni. Non mi ricordo neanche dove l’avevo preso. Dal colore sembrava ancora buono e il bambino è stato contento di mangiarselo. Da bere, alla fine, non gli ho dato niente.

Ho acceso il caffè e sono rimasto in cucina ad aspettare che venisse su, per togliermi un attimo dall’imbarazzo. Mi è spiaciuto lasciarli da soli ma volevo prima cercare qualcosa di intelligente da dire. Non mi è venuto in mente niente e sono tornato di là con la tazzina in una mano e il barattolo dello zucchero nell’altra.

«Tu non lo prendi?», mi ha chiesto.

«Il dottore ha detto di non esagerare. Mi basta sentire il profumo.»

Io non so neanche come si chiama il mio dottore, però ho solo la caffettiera da uno e non avevo voglia di rifarla, quindi mi sono inventato una scusa per farla breve.

L’ha buttato giù in tre sorsate, senza neanche aprire la zuccheriera.

«Amaro e bollente. Che coraggio.»

«Mi sono abituata così», ha risposto.

Era un po’ dispiaciuta, come se avesse sbagliato, come se ci fosse un modo giusto per bere il caffè e a lei non glielo avessero insegnato. Speravo che ci mettesse un po’ di più, a finirlo, così magari avevo ancora un po’ di tempo per pensare a cosa dire. È piccolina, la Anna. Sempre stata. In più ha questo modo di stare tutta raccolta, con le braccia strette addosso, come se le facessero pagare l’occupazione del suolo pubblico. È carina, anche, non dico di no, però mi è sembrata invecchiata. Di certo dopo vent’anni non potevo trovarla ringiovanita ma il tempo l’ha proprio sciupata. Bisogna dire che non è mai stata di quelle che si truccano o si mettono in tiro, non gliene è mai fregato niente da ragazza, figuriamoci adesso. I capelli per esempio: aveva provato a legarseli con un elastico ma la maggior parte erano scappati in giro. Il colore anche, non era più quel bel castano che mi ricordavo io. Gli occhi sempre belli, loro il colore non l’avevano perso, però si vedeva che le pesavano. Avevano intorno dei cerchi scuri, come un’ombra arrivata da chissà dove, che sulle guance diventava un gonfiore. Questo era un peccato perché non si vedevano gli zigomi, che di una donna erano la mia parte preferita quando ancora le guardavo.

«E io, come sono invecchiato?»

Non se l’aspettava questa domanda, infatti mi sono accorto che stavo continuando un discorso che esisteva solo nella mia testa. Che figura.

«Sei sempre uguale.»

«Non è vero. Ormai ho più rughe in faccia che capelli in testa. È brutta la vecchiaia: ingrassi senza mangiare, ti stanchi stando fermo. Goditi la gioventù, finché ce l’hai.»

«È un po’ tardi per godersi la gioventù. Non vedo l’ora di andare in pensione, per stare un po’ tranquilla.»

Scherzava ma neanche tanto.

«Ma che pensione. Quanto ti manca?»

«Almeno venticinque anni. Ogni anno alzano l’età e di contributi ne ho versati pochi.»

«Dov’è che lavori?»

Non mi è sembrata tanto contenta di rispondere.

«In una cooperativa. E tu, lavori ancora?»

«Ma va. Sono andato in pensione due anni fa, se si può chiamare pensione quest’elemosina che mi passano dopo che ho tirato cavi per quarant’anni.»

«Non ti manca, il lavoro?»

Che domanda del cazzo, certo che mi manca, era l’unica cosa che ero capace a fare e adesso non posso più farla.

«Neanche un po’. Tanto ormai è solo più una guerra a chi tiene il volume più alto. Comprimono tutto al massimo dei decibel fino a quando non si distingue più niente. Se ascolti una canzone di adesso non c’è più dinamica, non c’è più colore, non c’è più spazio. Ti fanno sentire dei violini che suonano come delle grancasse ma tanto la gente di oggi non distingue una scoreggia da un notturno di Chopin. La musica la sentono al telefono, cosa vuoi che ne sappiano. Voglio vedere se metti un disco di oggi su un impianto come questo qua, quante magagne che escono.»

Il bambino si è messo a ridere quando ha sentito “scoreggia”. Era da un po’ che guardava l’impianto, e soprattutto gli scaffali intorno, pieni di roba che non riconosceva.

«Cosa sono quelli?», mi ha chiesto.

«Dischi», ho risposto.

«Cosa sono i dischi?»

«Ma come, non hai mai visto un disco? Anna, ma non ne avete dischi in casa?»

Ha mosso la testa piano, si vede che era un po’ in imbarazzo. A me sembrava una pazzia che una come lei, una di noi, vivesse senza dischi ma non ho voluto accusare nessuno. Ne ha passate tante, ‘sta ragazzina, che non era il caso di cominciare di nuovo a insultarla. Mi sono ricordato però che dovevo ancora dare una risposta al bambino. Cos’è un disco? Vai a sapere come fare a spiegarlo.

«Un disco è un cerchio con delle canzoni dentro», ho detto.

«Come un insieme?», ha risposto lui.

«Sì, proprio come un insieme, bravo. Sei sveglio.»

«Si possono vedere le canzoni?»

«Certo, vieni qua.»

Ho preso in mano quello che stava sul piatto e gliel’ho avvicinato agli occhi.

«Cosa vedi qui dentro?»

«È tutto nero.»

«Sì, ma guarda bene dentro al nero. Vedi che ci sono delle righe?»

«Sì.»

«Ecco, dentro le righe ci sono le canzoni. E vedi che ogni tanto c’è una riga più nera delle altre? Lì finisce una canzone e incomincia quella dopo. Capito?»

Si vedeva che non aveva capito niente ma io non sapevo spiegarlo meglio di così. Ha allungato un dito per toccare le canzoni e io d’istinto ho tirato via il disco.

Anna allora si è arrabbiata con lui, poverino. Mi è spiaciuto di avergli fatto prendere una sgridata.

«Dino! Non si toccano con le dita. Si rovinano.»

«Ma no, lascialo toccare, non succede mica niente. Metti il dito, dai, non preoccuparti.»

Ma lui ormai ci era rimasto male e non ha più osato.

La cosa più brutta della malattia del collezionismo è che ti attacchi alle cose come se valessero veramente qualcosa. Invece in quel momento lì mi sono accorto che era più importante che il bambino mettesse il dito, a costo di rovinare un disco. Per cercare di riparare in qualche modo sono andato a prendere la spazzola e gliel’ho fatta provare.

«Dino. Ma lo sai che sono tanti anni che non incontro un Dino? Vieni qua che ti do un lavoro da fare. Prendi questa spazzola e passagliela sopra, così diventa di nuovo lucido. Prova.»

Ha provato, si è divertito.

«Li puliamo tutti?», mi ha chiesto.

Mi son messo a ridere. Non so da quanto tempo era che non ridevo. Nel senso di ridere per qualcosa che non arriva dalla televisione, perché è facile ridere guardando i comici, che sono gente pagata apposta.

«Per pulirli tutti ti dovresti fermare un mese. Facciamo così, se la mamma un giorno ti porta di mattina incominciamo a tirare giù quelli là in alto e li puliamo un po’ alla volta. Se non finiamo, continuiamo la volta dopo. Va bene?»

«Quanti sono?», mi ha chiesto.

«È tanto che non li conto ma saranno dieci o undicimila, se non di più.»

«Undici? Mila?»

Ha strabuzzato gli occhi e ha cominciato a contarsi le dita della mano. Faceva morir dal ridere questo bambino. Io ho sempre avuto il vizio maledetto di non guardare le persone in faccia, perché la gente meno la guardi e meno viene a darti fastidio e io sono uno a cui piaceva stare per i fatti suoi. Quindi per questo motivo ci ho messo un quarto d’ora prima di accorgermene. A un certo punto ha proprio fatto una cosa con le labbra che era tipica. Ha mosso il labbro di sotto in avanti fino a coprire quello sopra. È stato un attimo, però di tutti gli attimi che ho passato questo sarà uno che mi ricorderò. Era proprio lui, la stessa faccia, soltanto più piccola. La stessa bocca e lo stesso naso. I capelli erano troppo corti ma si vedeva che incominciavano ad arruffarsi in quel modo lì. Stesso colore. Non so come spiegare ma era proprio lui, soltanto più piccolo.

«Assomiglia…», ho detto.

Ho fatto segno col dito per indicare il bambino. A parlare non riuscivo proprio.

«Sì», ha risposto lei. «Ha preso tutto dal nonno.»

«Che nonno?», ha chiesto il bambino.

«Nonno Antonio», ha risposto lei.

Allora il bimbo mi ha guardato in faccia e mi ha detto:

«Il mio nonno Antonio è morto tanti anni fa.»

«Eh, già», ho risposto io. «Lo conoscevo, tuo nonno. Era mio fratello, tuo nonno.»

«Io non ce l’ho il fratello», mi ha detto lui.

«No? La mamma e il papà non te lo fanno un fratellino?»

Anna si è scurita un po’, ha risposto piano, forse perché non voleva che il bambino sentisse.

«Fatichiamo a mantenerne uno…»

Me ne sono accorto da come erano vestiti. Il Dino aveva dei pantaloni della tuta che erano stati addosso a chissà quanti bambini prima di lui e le scarpe anche, avevano fatto tanti chilometri, un passetto alla volta. Anna aveva questo golfino rosa sbiadito. Sono sicuro di averglielo già visto addosso prima di quel giorno e questo vuol dire che aveva almeno vent’anni, se non di più. Me la ricordo proprio, lei, giovane, con addosso la stessa maglia. Neanche le mummie tengono gli stessi vestiti per così tanto tempo. Ecco, mi sono detto. Adesso ho capito. Sono venuti a chiedermi dei soldi. Bisognava essere proprio tonti per non accorgersene, altrimenti che motivo avrebbe una persona di uscire da sotto terra dopo tutto questo tempo e dopo tutte le brutte parole. Se proprio dovevano scucirmi qualcosa che almeno me lo chiedessero in fretta e se ne andassero il prima possibile, ma col bambino che ascolta e capisce tutto non si poteva mica fare un discorso serio.

Ho tirato giù un’altra decina di dischi dagli scaffali, stando attento a scegliere solo ristampe e ciarpame che avrei fatto meglio a non comprare.

«Toh, mettiti qui. Li tiri fuori dalla busta, uno alla volta, stando attento a non mettergli le dita sopra. Li tieni dal bordo, così. Li appoggi sul giradischi, così, e gli passi sopra la spazzola, prima da una parte e poi dall’altra. Devi portare via tutta la polvere, perché altrimenti quando appoggi la puntina friggono.»

«Friggono?», mi ha chiesto.

«Friggono come le patatine.»

Chissà cosa si è immaginato. Però almeno ha smesso di fare domande e ha cominciato a tirare fuori i dischi come se gli avessi dato da fare il lavoro più importante del mondo. Dovevi vedere come li maneggiava, dopo quella sgridata che si è preso prima, sempre tirando in avanti il labbro per concentrarsi, proprio come facevi te quando incominciavi a suonare un pezzo o quando ti mettevano davanti uno spartito da leggere per la prima volta. Era una macchina del tempo, ‘sto bambino. Era come se ti avessero mandato indietro, solo che tu ricominciavi a vivere da capo e io, invece, tempo una decina d’anni…

«È impressionante come gli assomiglia.»

«Si è visto da subito, appena nato.»

«Speriamo che gli assomigli solo di faccia», ho detto.

«Speriamo», ha risposto lei.

Scherzavamo ma sapevamo tutti e due che non c’era niente da ridere.

«Tua mamma come sta?»

«Bene. Ti saluta.»

«Gli hai detto che venivi?»

«Non ancora. Non ero sicura di trovarti.»

«Allora come fa a salutarmi?»

«Era per dire. Se lo sapesse ti manderebbe un saluto.»

«Ah, sì? Io non credo mica. Se voleva salutarmi poteva venire, come hai fatto te.»

«Anche tu potevi fare una visita, una telefonata.»

«Non sono il tipo da fare telefonate.»

«Se mi lasci il numero magari ti faccio chiamare.»

Ho fatto finta di non aver sentito.

«Il telefono va bene per le emergenze, non per stare tutto il giorno con l’orecchio attaccato alla cornetta a dire scemenze o sentire gente che si lamenta della sua vita. Quanti siamo? Sei, sette miliardi di persone, ognuna col suo telegiornale personale da raccontare. Ti telefonano e poi attaccano col bollettino delle disgrazie. Per carità. Dopo tanti anni passati a sistemare i rumori adesso mi godo un po’ il silenzio.»

«Mi spiace che siamo venuti a scombinarti la giornata.»

Non si capiva se era davvero dispiaciuta o se voleva prendermi in giro. Ho fatto finta di interessarmi alla sua vita, altrimenti ricominciavamo a litigare.

«Raccontami qualcosa. Cos’hai fatto in tutto questo tempo?»

«Ho finito di studiare, ho iniziato a lavorare. Ho fatto lui, anche se mi sono decisa tardi», ha detto indicando Dino.

«Come tardi? Quanti anni hai adesso?»

«Quarantadue.»

«E lui?»

«Ne ha fatti sette ad agosto.»

«È proprio un bel bambino. Bravo, anche. E il padre, lo conosco?»

Neanche questo sembrava il suo argomento preferito. Non si poteva parlare di niente con ‘sta ragazza. Sempre stata così, bisognava strapparle le parole con la tenaglia. Quando non aveva voglia di parlare le si indurivano le labbra, si stringevano come se dovesse imprigionare l’aria dentro la bocca.

«No, l’ho conosciuto qualche anno dopo…»

«Potevi portarmelo da vedere, così me lo presentavi.»

«La prossima volta, magari.»

Io non lo so cosa c’era sotto, forse si era separata col bimbo ancora piccolo e si vergognava a dirmelo, però di una cosa sono sicuro: da come ha detto quel “magari” si capiva che stava parlando di una cosa che non sarebbe mai successa.

«Cosa fa? Di lavoro, dico.»

Ho toccato un altro tasto dolente. Anzi, mi sa che questa volta sono andato a pizzicare la corda più dura del violoncello.

«Insegna», mi ha risposto.

«Cos’è che insegna?», ho insistito io.

«Musica. In una scuola media.»

Purtroppo ho dovuto mettermi a ridere. Non volevo, eh, ho provato a tenermi ma non sono riuscito.

«Perché ridi?», mi ha chiesto.

«Niente, niente. Si vede che la musica è proprio la maledizione della nostra famiglia.»

Adesso finalmente sorrideva anche lei. Era un po’ amarognolo ma era pur sempre un sorriso ed era già il secondo o il terzo da quando è arrivata. Per una come lei doveva essere una specie di record mondiale.

«E tu, suonare? Suoni ancora?», le ho chiesto.

«No. È da tanto che ho smesso.»

«Male. Dovresti riprendere.»

«Perché?»

Aveva ragione, non è mica obbligatorio suonare. Anzi, alla volte è solo una crudeltà e basta. Quando ti attacchi troppo alla musica diventa un inferno, un tormento continuo.

«Non lo so perché. L’ho detto tanto per dire.»

«Ho finito», ha detto il bambino.

«Già finito? Bel lavoro, bravo. Ne vuoi degli altri?»

Lui li voleva ma è intervenuta sua mamma a dire basta. Questa volta andavano via per davvero.

«Saluta, che adesso andiamo», gli ha detto.

«Posso venire un’altra volta?», mi ha chiesto.

«Ma certo, puoi venire tutte le volte che vuoi. Ogni tanto passate da queste parti?», ho chiesto ad Anna.

«Ogni tanto. Per andare al cimitero.»

«Io è tanto che non vado. Dovrei passare a fargli un saluto. Hai parcheggiato lontano?»

«Siamo venuti in pullman.»

«Ma da dove, da Torino?»

Mi sembrava una roba da matti ma è anche vero che io non salgo su un pullman da quando andavo a scuola, quindi magari è una cosa normale.

«Ci vogliono venti minuti, col 49.»

Non sapevo se dare un bacio sulla guancia o un piccolo abbraccio non troppo stretto. Alla fine nessuno ha dato niente, ci siamo salutati e basta, solo che mi sembrava strano finirla così allora li ho fermati quando erano già sulle scale. Il difficile è stato trovare una busta della dimensione giusta, quadrata e fatta di plastica resistente. Ne ho trovata una, appallottolata dentro un cassetto, con sopra la scritta di Maschio, quel negozio di piazza Castello che avrà chiuso vent’anni fa. Valeva più la busta dei dischi che gli ho infilato dentro, non troppi perché non diventasse pesante visto che dovevano portarsela sul bus. Gli ho infilato dentro anche la spazzola, tanto io ne ho un cassetto pieno.

«Toh», ho detto al bambino. «Questi puliscili a casa e poi me li riporti domenica prossima. E dì alla mamma che se non vuole farti un fratellino che almeno ti compri un giradischi.»

Era contento, o almeno sembrava.

Volevo quasi dargli un passaggio con la macchina. Ormai guido poco, non perché non vedo o non sento o mi sono rincoglionito, come pensano quelli che danno le patenti, ma solo perché non devo andare da nessuna parte. Pensare che una volta facevo avanti e indietro per l’Italia sul furgone, ma non solo l’Italia, anche tanta Francia, Germania, Svizzera, Olanda, Belgio. Tre o quattro volte sono andato fino in Svezia. Ero capace di guidare tutta la notte senza fermarmi e adesso invece mi tremano le gambe per portare una donna e suo figlio da qui a Torino, che non saranno neanche dieci chilometri di strada.

Ho aspettato troppo. Tempo che mi sono deciso e ho tirato fuori la macchina dal garage, sono andato davanti alla fermata dell’autobus ma si vede che era già passato. Che scalogna. Certe volte fanno aspettare la gente delle ore sotto la pioggia, e oggi invece è passato subito. Ormai ero in macchina, cosa dovevo fare? Ho tirato dritto e ho parcheggiato davanti al cimitero. Non so neanche quando è stata l’ultima volta. Quando ho attraversato il cancello mi sono fermato subito per paura che mi chiedessero il biglietto d’ingresso ma non c’era neanche un custode, si vedeva solo una vedova in lontananza con un annaffiatoio verde in mano. Strisciava i piedi da una parte all’altra del cimitero spalmando ghiaia e spandendo acqua. A vederla così sembrava una fatica inutile, con quell’innaffiatoio che la trascinava giù come una pietra al collo eppure lei probabilmente lo faceva tutti i giorni e lo faceva anche volentieri. Chissà chi ha deciso che i morti vanno matti per i fiori. Non sarebbe brutto sapere di avere sempre un bel vasetto di fiori freschi sotto la fotografia, ma io ho preferito fare una vita tempestosa piuttosto che una morte serena. Donne che hanno provato a starmi vicine ce ne sono state ma io non sono il tipo da sopportare gli altri per tanto tempo. Ci sono certi che soffrono la solitudine e invece io soffro la compagnia. Dopo un po’ iniziano a prudermi i nervi, anche se invecchiando ogni tanto mi viene da allungare la mano come se dovessi toccare qualcuno. È una cosa stupida che ogni tanto mi capita. Sono lì, sul divano, e a un certo punto mi trovo con la mano a mezz’aria senza neanche sapere perché. Sto iniziando a perdere colpi ma va bene così, da adesso in avanti meno capisco e meglio è. Tanto tra poco avrò anch’io il mio appartamentino qui nella città di marmo. Magari mi faccio mettere vicino all’Antonio, se riesco a trovarlo. Un giorno devo passare in comune a prenotare il posto. Pago quello che c’è da pagare e non ci penso più. Qui da qualche parte ci sono anche mamma e papà, solo che le strade sono tutte uguali e non so più come fare a trovarli. Come fai a orientarti in un posto del genere? Chiederei informazioni ma i morti non rispondono volentieri. E pensare che questo qui non è neanche grande, come cimitero. Io non so come fanno quelli del Monumentale di Torino, che devono camminare per dei chilometri in mezzo alle tombe. Ho sentito dire che ti portano dentro col pullman e scendi alla tua fermata.

A forza di camminare l’ho trovato e ho anche capito dove ho sbagliato: l’ultima volta che sono venuto questa era la fine del cimitero ma poi sono passati gli anni e hanno dovuto costruirne un altro pezzo per metterci tutta la gente che è morta nel frattempo, quindi io sono andato fino in fondo ma poi mi sono reso conto che il loculo di Antonio l’avevo già passato. Eccolo lì, in ultima fila, in cima a una parete grossa come un campo da calcio. Si era fatto cremare, che a quel tempo non era una cosa tanto normale, e i cremati li mettono in un loculo più piccolo rispetto a quelli che si fanno seppellire tutti interi. Era talmente lontano che a malapena riuscivo a leggere il nome, allora ho visto che c’era lì una scala a castello, di quelle con le ruote che sposti avanti e indietro per arrivare a mettere i fiori nelle tombe più alte. Io una volta salivo dappertutto. Per i concerti negli stadi montavamo certe colonne di casse di ritardo alte dieci o venti metri, così quelli che si mettevano in fondo, a cento metri dal palco, sentivano la stessa musica di quegli scalmanati attaccati alle transenne. Ma anche nei teatri e nei palazzetti, se c’era da salire su fino al soffitto io non mi sono mai tirato indietro. Chiedi pure in giro. A sessant’anni suonati dovevano legarmi per farmi stare fermo. “Ma no, Adriano, dove vai, lascia stare, salgo io”, dicevano. Ma io niente. Piuttosto che lasciar fare il lavoro a un incapace e poi doverlo rifare un’altra volta preferivo metterci le mani fin dall’inizio. C’è gente che si è fatta una bella carriera soltanto a guardarmi lavorare. Starmi vicino era come fare un’università in ingegneria del suono eppure non me ne ricordo uno che mi abbia ringraziato. Io una volta salivo dappertutto eppure mi sono bloccato con le mani aggrappate alle ringhiere di alluminio, un piede sul primo gradino e l’altro incollato al pavimento e vacca troia se si staccava. C’era Antonio là sopra che mi aspettava e io non salivo. Forse avevo paura di guardarlo in faccia ma dovevo proprio dirgli, dovevo proprio raccontargli. Invece ha parlato lui per primo.

«Ci salgono le vecchiette su quella scala, non avrai mica paura?»

La voce delle persone è la prima cosa che ti dimentichi ma non io, che lavoravo con le orecchie, io che non smettevo di regolare i livelli fino a quando non usciva il suono che volevo, quello che mi ero immaginato, quello che sentivo prima di tutti gli altri, prima ancora che gli strumenti lo suonassero. Ce le ho tutte in testa le voci della gente che ho incontrato e ogni tanto parlano. Ripetono cose che gli ho sentito dire o se ne inventano di nuove. È la mia condanna, questa qua: non sopporto nessuno, eppure basta che ti incontri una volta per la strada e ti dedico un canale audio. Ho il cervello che è una specie di grande banco mixer, pieno di cavi che partono e non so più dove arrivano. Erano il mio incubo, i cavi ingarbugliati. Non so quante notti ho sognato che cercavo di sciogliere un garbuglio, di spegnere un segnale che non riuscivo ad abbassare perché non capivo qual era il suo canale. Sembra una cavolata rispetto a certi sogni che si fanno ma per me era un tormento.

Toh, ce l’ho fatta. Eccomi qua, con la faccia a due centimetri dalla tua, come quando litigavamo, ti ricordi? Vacca miseria quante ce ne siamo dette. Quante urla e quante cattiverie, e pensare che non sono servite a niente. Una testa come la tua non la raddrizzavi neanche a martellate, figurarsi con le parole. Mi hai fatto salire fin qui e adesso non parli? Come mai c’è il vasetto vuoto? Anna non te l’ha portato un fiorellino? A saperlo te lo compravo io, c’è un chioschetto lì fuori fatto apposta per spennare la gente. La Anna, secondo me… Mi spiace venire qui a parlar male di tua figlia, però secondo me i fiori non te li porta perché non se li può permettere. Da come va in giro vestita mi sa che ha fatto fatica a comprarsi il biglietto del pullman, figurarsi se riusciva a comprarti una rosa in quel chiosco, con i prezzi che avrà per via della posizione, proprio davanti al cimitero. Se ne approfittano, quelli lì, te lo dico io.

Ma il bambino l’hai visto? In faccia, dico, da vicino? Potevi aspettare una quindicina d’anni, a morire, così lo conoscevi anche te, chissà che ti ci affezionavi. È impressionante come la gente muore ma le facce rimangono scritte nel sangue e ritornano addosso a qualcun altro. La mia faccia non ce l’avrà mai più nessuno. Qualche occasione ce l’avrei avuta, qualche donna che ha provato a insistere, a buttare lì l’argomento, ma io non sopportavo le persone fatte e finite, figurati un bambino, con tutte quelle cose da dirgli e da insegnargli, le preoccupazioni da schivare e le responsabilità da prendersi. Ho faticato a tener dritta la mia, di vita, ci mancava solo di dover badare a quella di qualcun altro. Pensavo: per fare un figlio e poi abbandonarlo, come hai fatto te con la Anna, allora è meglio lasciar perdere, invece mi sbagliavo perché un motivo valido deve esserci per forza se ‘sta ragazza alla fine ha trovato la forza di lottare, di farsi strada in mezzo agli altri, di fare un bel bambino e poi tirarlo su, di fare dei lavori schifosi, di rinunciare alla sua grande passione e chiudere il pianoforte una volta per tutte, di prendere un pullman di domenica pomeriggio e venire fin qui per far visita a un vecchio pezzo di merda che l’ha insultata in una maniera talmente vigliacca che mi sarai meritato di non vederla mai più e di non vedere neanche il bambino. Meritavo di morire senza sapere che c’era ancora in giro la tua faccia. Scusa, eh, se mi viene da piangere, però cosa rimane adesso della mia vita? Tanta fatica e tanta rabbia per poi diventare una fotografia. Mi sono agitato tanto e adesso mi toccherà stare fermo e zitto per tutta l’eternità, imprigionato dentro una cornice, senza nessuno che salga la scala per venire a vedermi da vicino. Te lo ricordi cosa dicevamo da piccoli? Quando è mancata la nonna, papà ci ha detto che ci guardava dal cielo e allora noi ci siamo convinti che il mondo era una specie di televisione per i morti. Tu almeno hai il tuo canale preferito, puoi guardare la Anna e Dino, vedere cosa fanno, dove vanno, che gente incontrano. Ma io, quando arrivo su, cosa faccio? Chi guardo? Continuerò a cambiar canale tutti i momenti, come faccio adesso per cercare i documentari.

Certo che da qui vedi un bel panorama. La collina di Torino da una parte e di là, in fondo, le montagne. Qui da noi ormai non nevica più ma là sopra per fortuna le cime imbiancano ancora. Il brutto di abitare in mezzo ai palazzi è che non riesci a guardare lontano, almeno io, che sono ai piani bassi. È come tenere gli occhi al guinzaglio: non possono allontanarsi per più di una decina di metri senza andare a sbattere contro un muro, una facciata, una finestra coperta di tende. Non si vede più niente, c’è solo tanto rumore inutile da sentire, quello non manca mai. Motori delle macchine, telegiornali a tutte le ore del giorno, bambini che urlano e genitori che li sgridano, citofoni e telefoni che non stanno mai zitti. Gli occhi puoi chiuderli ma le orecchie rimangono sempre aperte, anche di notte, per quello faccio fatica a dormire. Se non fosse per le orecchie starei benissimo. È un assedio questo qui, non è una vita, mi danno la caccia sia i vivi che i morti, e pensare che avevo allontanato tutti ma le orecchie non dimenticano e le voci non si spengono.

È meglio che scenda prima che mi venga la voglia di buttarmi giù dalla scala.

Ma sì che te lo compro, il fiore, stai tranquillo. Adesso vado nel chiosco, se è ancora aperto, e ti prendo una rosa o un crisantemo, quello che costa di più. Ti prenderei un mazzo o una bella pianta ma ti hanno dato un vasetto così piccolo che a malapena ci passa lo stelo di una violetta.

Un gradino alla volta scendo giù e ricomincio a camminare sulla ghiaia ma mi sento i tuoi occhi sulle spalle, sento quella fotografia maledetta che mi guarda da lontano e faccio una fatica boia a raggiungere l’uscita. Nel chiosco non c’è nessuno a parte la signora che sta già ritirando e mi accoglie per quello che sono, l’ultimo rompicoglioni della giornata che arriva proprio quando pensava di avere finito il turno.

Io quando so di dar fastidio sono solo contento, allora comincio a chiedere i prezzi e i nomi dei fiori. Le faccio tirar fuori di nuovo tutto, decido e poi cambio idea, prendo e lascio, guardo ma non apprezzo mai niente. Alla fine mi rifila delle gerbere arancioni ma stai tranquillo, me le ha fatte pagare come se fossero orchidee. Gliele ho fatte confezionare come si deve, coi nastrini e la carta trasparente, anche se non era il caso. Pensavo di essere furbo e invece sono solo cattivo e stupido perché quando finalmente sono uscito, col mio bel mazzo di fiori in mano, il cancello del cimitero era già chiuso e non c’era più verso di entrare. Allora lo sai cosa ho fatto? Sono risalito in macchina e sono tornato a casa. Mi sono messo a rovistare sotto al lavandino alla ricerca di un vaso di vetro, ma quando mai nella mia vita ho avuto un vaso di vetro? Me ne ricordavo uno ma probabilmente non era mio o si era rotto chissà quanti anni fa o forse non era neanche mai esistito. Perdo colpi, Antonio. Dentro la testa, ormai, mi passano solo cose inventate e cose dimenticate.

A forza di cercare alla fine ho trovato una caraffa. Tutto sommato poteva andare bene anche una caraffa.